RECENSIONE DEATH WISH

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“The Green Inferno” (2013), l’ultima pellicola di Eli Roth uscita nelle sale cinematografiche, impiegò non poco tempo per essere distribuita in tutto il mondo (ben due anni), a causa della mancata promozione del film da parte della Worldview Entertainment.

Per gli amanti dell’horror estremo fu un’attesa quasi snervante, sia perché possiamo vedere in Eli Roth un regista che non scende a compromessi con il grande pubblico e che dirige esattamente ciò che la sua “twisted mind” gli suggerisce, sia perché la pellicola doveva essere un chiaro tributo ai cannibal-movies degli anni ’70 e ’80, genere di radice prettamente italiana che in queste due decadi riscosse un incredibile successo a livello internazionale.

Il film si dimostrò effettivamente molto violento, tanto da essere vietato ai minori di 18 anni in Italia, ma senza raggiungere il livello di efferatezza a cui il regista statunitense ci aveva abituato precedentemente. In aggiunta, la sceneggiatura e lo sviluppo dell’intreccio non particolarmente brillanti (cose che probabilmente Eli Roth neanche cerca) non vennero apprezzate dalla critica.

Perché vi dico tutto questo? Perché “Death Wish” o “Il giustiziere della notte” non ha praticamente nulla a che fare con gli horror-splatter o i cannibal-movies.

Paul Kersey è un chirurgo che vive a Chicago con la moglie Lucy e la figlia Jordan.

Un giorno, tre malviventi si introducono nella sua abitazione per fare una rapina mentre lui è assente, uccidendo Lucy Kersey e ferendo gravemente la figlia.

Dopo un primo periodo di disperazione, Paul decide di reagire, impersonando la notte una sorta di anti-eroe soprannominato dalla popolazione il “Tristo Mietitore”, andando alla ricerca di criminali per eliminarli uno dopo l’altro.

La pellicola è un remake de “Il giustiziere della notte” del 1974, diretto da Michael Winner, dove Paul Kersey era interpretato nientepopodimeno che da Charles Bronson.

L’argomento “giustizia privata” non è certo una novità in ambito cinematografico; molti supereroi hanno utilizzato per la prima volta i loro poteri proprio mentre cercavano di farsi giustizia da soli, mentre cercavano di raggiungere risultati che “l’ala protettiva” della legge sembrava non essere in grado di conquistare. Alcuni film ne hanno fatto il pilastro fondante della trama (revenge-movie), facendo leva sulle emozioni più impulsive ed immediate del pubblico che osserva, regalandogli ciò di cui più sente il bisogno: un uomo malvagio che viene punito nei modi peggiori.

Detto ciò, si può ben capire come questi film rischino irrimediabilmente di somigliarsi tra loro.

Se “Il giustiziere della notte” di Winner potè beneficiare dell’aura innovativa che lo circondava essendo uno dei primi, se non il primo film, ad analizzare la criminalità urbana e l’assenza di sicurezza garantita dallo Stato, quello di Roth si trova di fronte una montagna quarantennale ripidissima da scalare, costituita da personaggi stereotipati, dialoghi prevedibili e sviluppi di trama scontati.

Di questa montagna il nuovo “Death Wish” probabilmente riesce a scalarne la metà, non portando lo spettatore a scappare dalla sala, ma non riuscendo comunque a distinguersi per qualità.

Le prove attoriali sono sufficienti, nonostante il regista non provi neanche ad analizzare un minimo i contrasti interiori di Paul (Bruce Willis) che, da persona perbene, avrebbe potuto inizialmente rigettare la nuova considerazione della realtà suggeritagli dalla sua mente traumatizzata. Questo rende il personaggio del chirurgo quasi bidimensionale, semplificando fin troppo la lotta che un brav’uomo distrutto dalla perdita è costretto a combattere per rispettare un codice più etico che solamente giuridico, invece di lasciarsi andare alla sua natura bestiale.

Sorprendente il personaggio di Frank Kersey, interpretato da Vincent D’Onofrio; il fratello squattrinato del protagonista si rivela essere molto più sfaccettato di quest’ultimo e la performance dell’attore newyorkese ci consente di immedesimarci almeno in uno dei soggetti coinvolti nella vicenda.

Del “gore” che da sempre distingue Eli Roth rimane solo una scena di un paio di minuti circa, ben fatta e molto realistica, ma nulla di sconvolgente.

La colonna sonora è dimenticabile e la regia è asciutta e priva di inutili manierismi.

Sicuramente l’argomento trattato, nonostante ci si trovi di fronte al rifacimento di un film che ha più di quarant’anni, non risulta anacronistico; la giustizia sommaria ed il possesso eccessivo di armi negli USA che, di conseguenza, si allaccia inevitabilmente al dibattito sull’eccesso di legittima difesa (affrontato costantemente anche nel nostro Paese), sono temi di rilievo nel contesto politico del ventunesimo secolo.

Le numerose contraddizioni e considerazioni che ruotano intorno a questa querelle vengono appena accennate da Eli Roth, facendo perdere spessore al suo film e ridimensionandolo a semplice prodotto d’intrattenimento.

D’altronde è d’intrattenimento che si è sempre occupato il giovane regista, solo che questa volta è accessibile a tutti.

VOTO: 6  

Articolo a cura di Vittorio Cecere

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