RECENSIONE IL FILO NASCOSTO
In una Londra “chic” degli anni Cinquanta, Reynolds Woodcock è un sarto ossessionato dal suo lavoro, celebre per la qualità dei suoi vestiti e per la loro bellezza ed eleganza. Dirige, insieme alla sorella Cyril, la House of Woodcock, alla quale si rivolgono tutte le maggiori e più importanti personalità del mondo per accaparrarsi una delle sue opere.
Da bravo scapolo impenitente, come si definisce lui stesso nel film, i suoi rapporti con le donne sono numerosi, instabili e molto burrascosi.
Il suo egocentrismo gli impedisce di creare un rapporto sentimentale duraturo ed utilizza le relazioni con il sesso femminile soprattutto come semplice compagnia, o fonte d’ispirazione.
L’incontro con Alma, ragazza tenace e decisa, lo porterà più volte a mettere in discussione il suo modo di vivere ed a rivalutare alcuni importanti valori dell’esistenza umana.
Molteplici fattori avevano contribuito alla grande attenzione focalizzata su questo lungometraggio: l’ultima volta la coppia Lewis-Anderson aveva portato in sala un lavoro di raro spessore come “Il petroliere” (2007), con cui l’attore britannico si era portato a casa il suo secondo Oscar come miglior attore protagonista; lo stesso attore aveva annunciato, alcuni mesi prima dell’uscita del film negli Stati Uniti, che questa sarebbe stata la sua performance d’addio al cinema; infine, i pareri entusiasti da parte dei critici americani ci avevano portato a credere che “Il filo nascosto” potesse realmente dire la sua nella corsa al miglior film alle premiazioni del 4 marzo.
Nonostante il premio sia andato a “La forma dell’acqua”, non si deve assolutamente rinunciare alla visione di questa pellicola che, sotto alcuni aspetti, risulta anche più convincente del lavoro di Guillermo del Toro.
Le prime immagini ci mostrano Reynolds Woodcock intento a vestirsi e prepararsi meticolosamente, pettinando i capelli con ben due spazzole, mentre la sua casa si sveglia dal torpore notturno, apparendoci in tutta la sua raffinatezza e perfezione.
Nel frattempo, una leggiadra colonna sonora accompagna l’entrata delle numerose sarte ed aiutanti della House of Woodcock che, rapidamente ed in fila indiana, raggiungono i piani superiori dell’abitazione, pronte per cominciare la giornata di lavoro.
Il compositore Jonathan Greenwood, in primis chitarrista solista dei Radiohead, è alla sua quarta collaborazione con Paul Thomas Anderson; le sfumature inquiete che caratterizzano le sue musiche in questo film trasmettono l’animo complesso di Reynolds, colmo di inventiva e fantasia, ma tormentato dalle sue ossessioni.
La costante pressione che il lavoro esercita su di lui, unito al riaffiorare di pensieri che lo riportano all’assenza della madre deceduta anni prima ed al vuoto che questa ha lasciato, lo rendono particolarmente insensibile ed intrattabile.
Le numerose sfaccettature del sarto sono rese al meglio da Daniel Day-Lewis, in grado di dare al suo personaggio un cipiglio che impareremo ad odiare mentre la vicenda si sviluppa, ma anche un lato fragile ed infantile che di tanto in tanto si manifesta, mostrando i demoni dell’uomo e le sue paure.
Lesley Manville (la sorella Cyril) e Vicky Krieps (Alma) reggono l’onda d’urto della performance di Daniel Day-Lewis, affiancandolo fino a quasi rubargli la scena in alcuni momenti.
La Manville è in grado di catalizzare sulla sua figura minuta e discreta una dose massiccia di attenzioni, grazie ad uno sguardo incredibilmente comunicativo e ad una sceneggiatura essenziale, fatta di discorsi brevi ma molto significativi e ragionati.
Vicky Krieps interpreta un personaggio altrettanto interessante, che nei primi minuti del film appare ai nostri occhi come ingenuo e troppo accondiscendente, per poi tirar fuori la sua vera natura di donna combattiva e orgogliosa, disposta a mettere i piedi in testa al compagno che tanto ama, pur di farsi amare a sua volta.
Ulteriore arma del film è quella di rendere il silenzio un alternativo modo di comunicare; più volte, infatti, i personaggi staranno in silenzio a guardarsi negli occhi, mentre la telecamera alterna primi piani tra l’uno e l’altro volto, dando vita a discorsi astratti, puramente mentali, momenti in cui il pubblico è impegnato a capire chi sarà il prossimo a parlare e, soprattutto, cosa dirà.
Tornando al confronto con “La forma dell’acqua”, bisogna dire che i due film sono estremamente diversi, lontani nelle tematiche trattate e nelle intenzioni dei rispettivi registi.
Preso atto del fatto che il premio Oscar è un singolo premio, tra i tanti che vengono assegnati in ambito cinematografico durante l’anno ed in molte altre sedi, è indubbiamente quello più considerato e prestigioso; bisogna sottolineare, però, che chi vince l’Oscar come “miglior film” non è oggettivamente il miglior film dell’annata, visto che ci troviamo di fronte a due pellicole di pregevole fattura che eccellono in più aspetti, senza che uno appaia palesemente migliore dell’altro.
Quest’anno è stata premiata più la forma del contenuto; la favola messa in piedi da del Toro ha scaldato i cuori di molti, mirando ad argomenti inflazionati ma particolarmente sensibili, delineando personaggi solidi e sfoggiando una regia di altissimo livello.
Anderson sceglie un linguaggio filmico più ermetico, meno universale, personaggi più riservati ed introversi, approfondendo la psiche di un uomo in cui bisogna scavare a lungo per poter raggiungere ciò che si pensa ci sia all’interno.
Proprio la curiosità di scavare in Reynolds Woodcock deve essere l’impulso necessario a guardare fino alla fine “Il filo nascosto” che, da chi vuole essere semplicemente intrattenuto, potrebbe risultare fin troppo lento ed impegnativo.
VOTO: 8
Articolo a cura di Vittorio Cecere