RECENSIONE TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI

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Mildred Hayes è una madre divorziata ancora molto sofferente per la morte della figlia, violentata e bruciata viva circa un anno prima.

Un giorno, si accorge che sulla strada che porta alla sua casa vi sono tre cartelloni pubblicitari in disuso; così, decide di affittarli e vi fa affiggere sopra tre frasi che daranno non poco fastidio allo sceriffo della città ed agli altri poliziotti, costringendoli a ritornare sul caso della giovane Angela Hayes.

Nonostante la durata non eccessiva (poco meno di due ore), l’opera di Martin McDonagh è ricchissima di eventi.

I manifesti vengono affissi a pochi minuti dall’inizio del film, così da lanciare il pubblico subito nel bel mezzo della vicenda; da qui in poi, il regista inglese analizzerà in maniera piuttosto minuziosa tutti i personaggi principali, mostrando i loro valori (quando ne hanno) e le loro contraddizioni, dimostrandosi il più delle volte imparziale e distaccato.

Vincitore di ben 4 Golden Globes (Miglior film drammatico, Miglior attrice in un film drammatico, Miglior attore non protagonista e Miglior sceneggiatura), “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è giunto nelle sale italiane l’11 gennaio di quest’anno, accompagnato dagli applausi ricevuti alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e dai pareri molto positivi di critica e pubblico d’oltreoceano.

La regia è variegata, permettendoci di gustare riprese statiche ariose, in cui il nostro sguardo esplora le vaste distese di verde, fino a raggiungere i meravigliosi tramonti oltre le montagne, non disdegnando, però, piani sequenza (uno in particolare) che si manifestano in situazioni quasi inaspettate, mantenendo alta l’attenzione di chi guarda ed allontanando la monotonia da un film sicuramente non ricco di scene “action”.

Le prove attoriali sono davvero pazzesche. 

Frances McDormand, vincitrice nel 1997 del Premio Oscar alla miglior attrice per la sua interpretazione nel cult “Fargo” dei fratelli Coen, interpreta Mildred Hayes, una donna dura, estrema e dalla mentalità rigida, animata dal desiderio di giustizia e dalla convinzione che non sia stato fatto abbastanza per giungere alla verità.

Più ragionevole sarà, invece, lo sceriffo Bill Willoughby di Woody Harrelson; nonostante i suoi problemi di salute e le preoccupazioni dategli dall’impaziente Mildred, si dimostrerà il più equilibrato tra i protagonisti e la performance dell’attore statunitense riuscirà ad esprimere al meglio le numerose sfaccettature del personaggio.

Il vincitore del Golden Globe come “Miglior attore non protagonista” è Sam Rockwell, alle prese con un ruolo incredibilmente difficile. L’agente Jason Dixon è un uomo frustrato, triste, alcolizzato e violento; l’omofobia e il razzismo che lo caratterizzano sono una chiara critica alla società statunitense, incredibilmente sviluppata dal punto di vista tecnologico ed economico, ed incredibilmente arretrata nell’incapacità di integrare efficacemente il “diverso” e nell’accettare il suo status di conglomerato di culture, lingue e razze diverse (e non sono di certo gli unici al mondo a non accettarlo).

Lo sviluppo dell’agente Dixon sarà ricco di difficoltà e molto appassionante, passando per momenti a dir poco folli seguiti da frangenti di insperata lucidità, sintetizzando l’isterico fermento che ha preso il sopravvento su Ebbig (città immaginaria) dopo l’affissione dei tre manifesti.

La sceneggiatura è composta da dialoghi affilati e decisi, conditi con una buona dose di turpiloquio che, in alcune situazioni, risulta forse un po’ eccessivo, dandoci la sensazione che si voglia necessariamente creare qualcosa di volgare perché “volgare=trasgressivo”.

Bisogna anche dire che non ci troveremo di fronte ad un semplice film drammatico; ogni situazione particolarmente triste viene sempre contaminata con atmosfere paradossali, dialoghi imprevedibili ed alle volte spiazzanti (qualcuno proverà un effetto “Twin Peaks”, visto anche lo svolgersi della vicenda in una piccola città), quindi per apprezzare a pieno emozioni così ricercate, il film merita sicuramente più di una visione.

In aggiunta, l’operazione di McDonagh potrebbe non essere considerata così innovativa, proprio perché vi sono spunti presi da registi più esperti (il già citato Lynch per i dialoghi paradossali e un po’ di Tarantino spruzzato su vaste parti della sceneggiatura), ma il 2018 comincia bene per chi ama il cinema proprio grazie a questo film, che sembra già pronto a diventare un cult.

VOTO: 7.5

Articolo a cura di Vittorio Cecere

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